La Corte Costituzionale con la sentenza n. 41 del 2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni.

Il giudice delle leggi ha così risolto l'evidente antinomia tra la previsione dell'art. 656 comma 5 c.p..p. e il dettato dell'art. 47 comma 3 bis L. 26 luglio 1975 n.354, come introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10.

A seguito di questa modifica è stata introdotta una nuova forma di affidamento in prova, cosiddetto allargato, per il condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, misura che può essere concessa al condannato che ha serbato, quanto meno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole quanto alla sua rieducazione e alla prevenzione del pericolo di commissione di altri reati.

Viceversa il comma 5 dell'art. 656 cod. proc. pen. prevede che il Pubblico Ministero debba sospendere l'esecuzione per le pene inferiori ai tre anni.

Ciò comportava, per i condannati a pena dai 3 anni e un giorno sino ai quattro anni di detenzione, di dover iniziare l'espiazione della pena detentiva, facendo così ingresso in carcere, prima di poter accedere alla misura alternativa dell'affidamento in prova.

La Corte ha osservato che mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost. Si è infatti derogato al principio del parallelismo  senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato.